Il mito del successo

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In questi giorni su tutti i giornali è circolata la storia di Giada, la studentessa dell’università di Napoli che si è uccisa il giorno della sua laurea. Aveva detto ad amici e parenti che si sarebbe laureata quel giorno ma, in realtà, non aveva neanche finito gli esami.

Non è la prima volta che accade qualcosa di simile. Ricordo qualche anno fa il caso di un altro ragazzo che si uccise per lo stesso motivo e so che negli Stati Uniti e in Giappone, dove gli studenti vengono sottoposti a grandi pressioni, accade spesso che qualche studente decida di suicidarsi.

Queste notizie lasciano sempre con l’amaro in bocca. È assurdo pensare che una persona possa arrivare a togliersi la vita per qualcosa come un diploma di laurea che, alla fine dei conti e paragonato ad una vita intera, non ha quasi alcuna importanza.

Non conoscevo Giada e non posso certo sapere cosa le passava davvero per la mente. Ipotizzo che soffrisse già di depressione e che la laurea mancata fosse soltanto la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Tuttavia, notizie come questa mi fanno riflettere sul grande mito dei nostri tempi: il successo.

Ormai nella società attuale la parola successo è diventata sinonimo di felicità.

Se non hai successo non puoi essere felice e se lo hai sei SICURAMENTE felice.

Purtroppo non è così, in fondo lo sappiamo bene, ma è facile dimenticarsene quando la società non fa che ripetertelo ogni giorno.

Fin da piccoli veniamo spinti a credere di dover raggiungere il successo ad ogni costo e che accontentarsi (qualunque cosa voglia dire) sia sbagliato.

Ricordo in terza media, arrivati al momento di scegliere come proseguire il nostro percorso scolastico, i professori che spingevano chiunque a scegliere il liceo.

“Soltanto il liceo ti prepara davvero all’università e l’università OVVIAMENTE va fatta eh, mica vuoi rimanere un poveraccio ignorante per tutta la vita?!”.

Il liceo veniva consigliato a tutti, anche a chi palesemente aveva grandi difficoltà o non aveva voglia di studiare. Per i professori era scontato che tutti avremmo fatto l’università, perché chi non faceva l’università non poteva ambire a niente nella vita, non poteva raggiungere il successo.

Alle medie ero molto brava a scuola e avevo già deciso di mia spontanea volontà di fare un liceo, quindi non mi accorsi delle pressioni da parte di professori e genitori a scegliere un determinato percorso.

Ma, arrivata in quinta superiore, me ne resi conto benissimo. Il discorso non era più soltanto “devi fare l’università”, ma “devi scegliere un corso di laurea utile, altrimenti rimarrai disoccupato”.

Ricordo anche che a quel punto la pressione non veniva soltanto dai genitori e dai professori, ma anche dai coetanei, cioè quelle stesse persone che si trovavano a dover compiere una scelta. Non solo, veniva anche da me stessa.

Ormai tutti avevamo interiorizzato che per raggiungere la felicità e sentirci realizzati dovevamo ottenere il successo e che, per ottenere il successo, dovevamo seguire un percorso ben preciso.

Il tuo obiettivo non poteva essere quello di fare la commessa in un negozio di vestiti e formarti una famiglia prima dei 25 anni. Quello era un obiettivo da falliti.
Il tuo obiettivo doveva essere scegliere un corso di laurea utile, laurearti con il massimo dei voti e nei tempi prestabiliti e riuscire poi ad ottenere un buon lavoro.

Ricordo una mia compagna delle superiori che diceva “Mia mamma non ha fatto l’università e oggi si deve accontentare di 1.500 euro al mese. Io voglio qualcosa di più, per questo mi iscrivo a giurisprudenza”.

Il problema è che alla fine interiorizzi questo pensiero senza neanche rendertene conto. Inizi a credere che se tu desideri qualcosa di diverso c’è qualcosa di sbagliato in te e così finisci per fare esattamente quello che ti è stato consigliato.

E dopo averlo fatto ti senti bene, tutti sono felici.

Ma dura poco. Poi iniziano i problemi…

Se già alle superiori non eri portato per lo studio, all’università diventa tutto più complicato perché non hai nessuno che ti spinge a stare al passo minacciandoti di bocciarti o di chiamare i tuoi genitori. Devi essere tu a gestirti e se non ci riesci sono guai.

Se riesci a gestirti e a dare gli esami in tempo, però, può insorgere un altro problema: ti guardi in giro e cominci a notare che i tuoi compagni amano davvero ciò che stanno studiando e tu magari no, lo fai solo per assicurarti un lavoro dopo e così inizia la frustrazione, la noia, l’infelicità.

E finita l’università?
Spesso quello è il momento della fregatura più grande. Improvvisamente ti rendi conto che fuori dal mondo universitario non c’è nessuno ad accoglierti a braccia aperte.
Del famoso “lavoro ben pagato” non c’è nessuna traccia e tutte quelle persone che ti avevano convinto a seguire un certo percorso adesso ti guardano con commiserazione e ti dicono “Eh sai, la laurea ormai non vale più niente, devi avere l’esperienza”.

La stessa compagna di scuola che diceva che la mamma doveva accontentarsi di 1.500 euro al mese, oggi a distanza di qualche anno da una laurea e un master deve accontentarsi (questa volta nel vero senso della parola!) di 800 euro al mese.

Ovviamente c’è anche chi il lavoro lo trova subito. C’è chi, dopo anni di sacrifici e dopo aver fatto tutto quello che gli era stato detto, ottiene davvero il “successo”…ma poi si accorge di non essere comunque felice.

Il successo che tanto aveva aspettato, il successo per cui aveva rimandato la felicità per anni, non era quello che sperava.

Il brutto quando ottieni quello che vuoi è che non sempre è come ti immaginavi che fosse.

E a quel punto cosa fai?

Come riesci ad andare avanti?

Devi rimettere tutto in discussione, tutta la tua vita, tutto quello in cui avevi creduto fino a quel momento.

E non è facile, per niente.

Sai cosa sarebbe più facile?

Insegnare fin da piccoli che successo e felicità sono due cose ben diverse.

Che avere successo non significa avere tanti soldi.

Che si può essere realizzati anche lavorando in un semplice supermercato.

Che non tutti dobbiamo diventare grandi manager o grandi donne/uomini d’affari. E non perché sia un sogno irraggiungibile e troppo ambizioso, ma semplicemente perché NON è il sogno di tutti.

Che laurearsi con 110L va bene, ma anche farlo con 90 va bene: quel voto è soltanto un numero e non rappresenta il nostro valore come persone.

Che nella vita dobbiamo seguire la NOSTRA strada, quella che NOI riteniamo più giusta e più soddisfacente e non quella ritenuta più giusta da altri.

Che la felicità è un viaggio continuo dentro di noi e che non è quel lavoro o quella laurea a farcela raggiungerla.

Che nessuna situazione è definitiva, tutto può cambiare in un secondo, nel bene e nel male.

E che ognuno di noi ha il suo percorso, diverso da qualunque altro e non bisogna mai smettere di sperare…qualcosa di più bello potrebbe sempre nascondersi dietro l’angolo.

8 pensieri su “Il mito del successo

  1. Vittorio Tatti

    C’è un altro problema, oltre alla pressione sociale e agli obiettivi imposti da falsi miti: oggi non è più possibile “accontentarsi”.
    Ci sono lavori poco pagati e che comportano anche poche responsabilità: per qualcuno può bastare, perché così ha più tempo per se stesso, senza stress inutili e dannosi.
    Solo che, quei lavori, stanno quasi tutti scomparendo, o perché sostituiti dai robot o perché in continuo sgomitamento tra persone sempre più disperate (andando a creare assunzioni al ribasso, quasi da volontariato).
    Bisognerebbe scegliere la strada della felicità e, possibilmente, della libertà dalle convenzioni, ma senza soldi non fai molta strada e non puoi coltivare i tuoi sogni, quindi non puoi essere né felice né libero.

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    1. Per quello che sto vedendo io in questi mesi di ricerca di lavoro ormai un po’ tutti i lavori sono poco pagati. E paradossalmente capita che la cassiera del supermercato guadagni di più di un giovane avvocato.
      Una laurea e mille specializzazioni non ti danno più la garanzia di un buon lavoro (o semplicemente di UN lavoro), per questo credo sia sempre meglio scegliere di fare ciò che ci piace davvero.
      Sono convinta che seguire i propri sogni sia sempre possibile…ovviamente quando hai i soldi è tutto più facile, ma se vuoi davvero ottenere qualcosa un modo lo trovi.

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  2. amleta

    Io ho studiato sia nell’università italiana che in quella straniera e ho vissuto con studenti italiani e studenti stranieri. Ebbene la differenza è abissale. Gli italiani erano sempre assillati da chiamate di genitori apprensivi e pretenziosi e invasivi. Spesso appunto gli studenti dovevano mentire pur di tenere a bada le belve. I genitori italiani sono possessivi e credono ancora che la laurea sia il top per la vita di un figlio e lo caricano di mille aspettative. Invece i genitori stranieri non erano così presenti e ossessivive addirittura spesso dicevano ai figli di viaggiare e lavorare piuttosto che studiare. Infatti se guardiamo le statistiche la maggior parte dei laureati italiani dopo la laurea non trova lavoro. Il motivo è anche che i genitori non vogliono che i figli vadano all’estero. Li crescono come degli stupidi automi che fanno solo ciò che vuole mamà. Insomma in Italia c’è ancora questa tradizione della laurea che non porta a niente. A volte vale di più andare a fare dei corsi brevi ma più adatti al mondo del lavoro di oggi che perdere anni e vite su studi inutili. La colpa è dei genitori che crescono dei figli pateticamente dipendenti da loro sperando che realizzino i sogni frustrati dei genitori stessi. Ho trovato infatti gli studenti stranieri più maturi e anche autonomi. Quelli italiani ancora tutti mammoni e mammone. Insomma sarebbe ora di farli crescere davvero i figli.

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    1. Secondo me il problema non è soltanto dei genitori. Sicuramente ci sono tantissimi genitori che si comportano esattamente come hai descritto tu e che sono i primi a rovinare i figli, ma ci sono anche genitori che crescono figli indipendenti che però hanno comunque questo mito della laurea. Nel mio caso, ad esempio, i miei genitori non c’entrano. Non mi hanno spinta ad andare all’università e non hanno mai condizionato le mie scelte, mi sono sentita più condizionata dai professori che ho avuto, da quello che leggevo o sentivo in tv o addirittura dai miei stessi amici. Magari tutto questo sarà diverso nelle prossime generazioni…

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  3. Quante cose avrei da rispondere….!
    Dico solo una cosa: che io mai mi farei assistere da un avvocato che a suo tempo decise di intraprendere questa attività perché “Mia mamma non ha fatto l’università e oggi si deve accontentare di 1.500 euro al mese. Io voglio qualcosa di più, per questo mi iscrivo a giurisprudenza”.

    Passione! Serve passione! E si vive per se’ stessi, per godere della propria vita. Non per dimostrare qualcosa agli altri.
    Da ragazzo i miei genitori m’avranno dato del fallito dalle 1000 alle 5000 volte. Ho perso il conto dopo le prime 10.
    Io ho fatto solo ciò che istintivamente sentivo che era la strada giusta per me e ora sono felice.
    Prendo qualche spicciolo in più di 1500 al mese, ma ho trovato l’equilibrio (il MIO equilibrio) tra guadagno e libertà.
    Non ho nemmeno studiamo tanto. E prendevo parecchi brutti voti. Nessuno avrebbe scommesso 1 centesimo su di me, ma io non mi son mai buttato sotto al treno.
    Certe volte fumarsi qualche canna e farsi qualche bevuta in compagnia può fare anche bene, o almeno non può fare più male del treno.

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